Il colosso dell’ultra fast fashion tenta di presentarsi ai consumatori come sostenibile e attento ai diritti. Una nuova indagine della Ong Public Eye a Guangzhou, nel Sud della Cina, lo smentisce nettamente. Mentre in Italia continua a operare attraverso una società domiciliata in Irlanda. E non è l’unico paradiso fiscale.
Il colosso Shein è recidivo, come dimostra l’ultima denuncia fatta a metà maggio dalla Ong svizzera Public Eye, che a distanza di due anni e mezzo da una prima missione è tornata a Guangzhou, nel Sud della Cina, per indagare le condizioni di lavoro in diverse fabbriche di fornitori della piattaforma di ultra fast fashion. “La settimana lavorativa di 75 ore è ancora la norma”, hanno raccontato alcune sarte ai ricercatori, sostenendo di operare “a cottimo”, in palese violazione della stessa legge cinese sul lavoro e del codice di condotta aziendale per i fornitori.
La dura realtà spegne il mantra fuffa della sostenibilità, sul quale Shein investe tantissimo al fine di promuovere una reputazione compromessa. Dopo la prima denuncia di Public Eye, il colosso aveva anche commissionato un rapporto di audit sui propri fornitori, incaricando le società Sgs, Intertek e TÜV Rheinland. “Shein si assume chiaramente la responsabilità di garantire che i lavoratori impiegati nelle fabbriche dei suoi fornitori ricevano salari equi per il lavoro svolto”, fu il benevolo verdetto.